domenica 24 giugno 2012

Nonni

La mia nonna si chiamava Felicita. L'altra, Amelia, è ancora un'ottima compagna di chiacchiere: conversa, ascolta, partecipa. E soprattutto è la nostra memoria. Ricorda il mio primo passo, la mia prima parola, la volta in cui, a sei anni, mi decisi a scappare di casa con una valigia di vernice nera.
Felicita, la mamma del papà, era una bella donna energica, il cui padre gestiva l'osteria del paese. La chiamavano "la grise", la grigia, per il colore dei suoi capelli: biondo cenere.
Conobbe il nonno Giovanni, un piemontese distinto e molto colto per l'epoca, mentre questi serviva la patria nel paesello della nonna.
La leggenda familiare narra che "la grise", affacciata al balcone, stava osservando con le sorelle la truppa in marcia. Pare che Giovanni, come rispondendo ad un silenzioso richiamo, alzò gli occhi, incontrando quelli azzurrissimi di Felicita. E fu amore.
In realtà si trattò di un matrimonio travagliato. Il nonno era un nobile mancato, figlio di proprietari terrieri caduti in disgrazia. Aveva fatto il liceo classico, e per tutta la sua esistenza sognò una vita diversa da quella stretta e stentata in cui si ritrovava. La nonna invece, di origini semplici, aveva diviso il pane con dodici fratelli e si accontentava di poco. Una gonna di panno che allargava e stringeva alla bisogna, un burro cacao rosato, un tocco di acqua di mughetto sui polsi. 
E lui, a sognare algide e perfette bionde con i capelli a onda, altezzose quanto basta per essere desiderabili.

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